Giorni Nostri

La vita del vulcano e l’uso del territorio

Descrizione

Cosa può fare il Parco dell’Etna, oggi e per il prossimo futuro, per il suo vulcano, riconosciuto come bene unico e insostituibile per l’umanità, e il territorio circostante? La prima cosa è continuare a far comprendere a tutti che l’uomo è solo uno dei tanti ospiti che vivono sulle pendici di questo eccezionale vulcano attivo. Gli esseri umani, rispetto agli altri animali, hanno però la particolarità e il privilegio di poter comprendere se il proprio modo di vivere rispetta o no le leggi naturali e di poter scegliere di modificare i propri comportamenti in modo “sostenibile”.

Grazie alla presenza del Parco, da oltre trent’anni sull’Etna, nonostante la vicinanza di zone molto antropizzate come l’area metropolitana di Catania, l’uomo ha potuto sperimentare un rapporto con la Natura più armonico, dove lo sviluppo rispetta le leggi naturali, il consumo di suolo è stato ridotto, il rischio di desertificazione è diminuito, i valori dell’ambiente vengono preservati e il turista è interessato alla loro presenza e qualità. Una rete di sentieri, segnalati con la tipologia del CAI (Club Alpino Italiano), indirizza i flussi turistici su percorsi controllabili e consente a turisti e visitatori di entrare in contatto con la Natura e anche con il paesaggio costruito dall’uomo, con le tradizionali costruzioni rurali in pietra lavica che costituiscono il “patrimonio tradizionale fisso” del Parco.

Il territorio del Parco e il suo sito UNESCO sono protetti da norme di tutela europee, nazionali e regionali e dal controllo internazionale dell’UNESCO, tramite il Ministero dell’Ambiente. Per questo, al Parco dell’Etna sono stati attribuiti molti poteri, tra i quali ad esempio quelli di autorizzare le attività dell’uomo, di punire con multe i comportamenti non rispettosi, di fare le regole, i piani e i programmi per proteggere il vulcano, la sua vita e i suoi particolari habitat, cioè l’insieme delle condizioni ambientali in cui vivono una o più specie animali e vegetali. Il passo successivo, anche attraverso l’educazione ambientale, è favorire un cambiamento del nostro stile di vita per fare sì che, nel tempo, l’impronta ecologica dei comportamenti dell’uomo nei confronti del Monte Etna diventi sempre più lieve. Se riusciremo a far conoscere e comprendere a molti le cose che abbiamo scoperto insieme nel nostro percorso, questo contribuirà a consegnare alle future generazioni un ambiente integro, Patrimonio Mondiale dell’Umanità.

Approfondimenti

Il paesaggio intorno all’Etna ha i colori della “sciara”, della lava raffreddata e indurita. La terra è scura e le costruzioni, specialmente nelle campagne, sono fatte con le pietre laviche. Di pietra scura sono i muretti, le pavimentazioni delle stradelle di campagna, le murature dei fabbricati rurali e tradizionali, ma anche i bordi di basalto compatto (ciglioni) dei marciapiedi nei centri abitati, le mensole in pietra più lavorabile, spesso finemente scolpite, che sostengono i balconi delle case in muratura (cagnoli), come anche gli archi di grandi portoni, gli stipiti e gli architravi di porte e finestre, o gli intonaci neri fatti con l’azolo (sabbia lavica da macinazione). Pietre laviche naturali, usate così come vengono trovate, dopo essere state scelte per forma, durezza e dimensioni, vanno a formare le murature “a secco”, cioè di sole pietre, abilmente disposte l’una accanto all’altra in larghezza e altezza, in un abile incastro di spazi vuoti e pieni, senza malte per legarle. Questa forma di utilizzo della pietra lavica nelle costruzioni è la più “sostenibile”, perché il materiale non viene estratto, lavorato, spostato per lunghe distanze e non produce rifiuti. Le costruzioni a secco risultano perfettamente armoniche, anche visivamente, con il terreno circostante e come esso subiscono piogge, ospitano muschi, licheni, piccole piante che fioriscono, insetti, altri animali. Con muri a secco sono spesso recintate le proprietà, e con la stessa tecnica sono fatti i muri dei “terrazzamenti”, con i quali un terreno in pendio viene trasformato in parti pianeggianti coltivabili (terrazze), sostenute dai muretti, e disposte l’una in continuazione dell’altra, a differenti altezze, collegate da scalette in pietra. Con una particolare tecnica venivano costruite le “torrette”, per le quali si usavano le pietre che l’agricoltore trovava e toglieva per lasciare il terreno più sciolto possibile. Cosa farsene? Nessun contadino pensava, come si farebbe oggi, di portarle via o buttarle. Le più grandi e solide potevano essere usate per i muretti, o anche per costruire la “casedda”, spesso di una sola piccola stanza, dove uomini, animali e attrezzi trovavano riparo. Le altre, più piccole e irregolari, venivano impiegate nelle torrette di varie forme geometriche, spesso a base quadrangolare costituita da terrazze sovrapposte digradanti verso l’alto, ma anche circolari con avvolgimento a spirale. Venivano collocate sulla parte del terreno meno fertile, talvolta su massi o colate affioranti, usando le pietre piccole e piccolissime all’interno e le migliori ai bordi e agli angoli. Blocchi e massi di materiale lavico vengono estratti dalle cave e lavorati per la realizzazione di pietre squadrate da costruzione, lastre, altri elementi, per murature, pavimenti interni ed esterni, pavimentazioni stradali, o macinati per calcestruzzi e intonaci. Le poche cave che ricadevano nelle zone “B” di Parco sono state chiuse e quelle ancora attive si trovano nella zona “D” o fuori dal Parco. Bravi artigiani e artisti utilizzano la pietra lavica non solo per elementi ornamentali delle costruzioni, ma anche per oggetti d’uso come tavoli, piastrelle, spesso arricchiti con la tecnica della ceramizzazione, per gioielli, o per sculture come la stele presso la sede del Parco per l’iscrizione del sito Monte Etna nella Lista del Patrimonio Mondiale.
La vita di ogni essere vivente lascia una traccia nell’ambiente. Per vivere infatti consumiamo cibo, indossiamo abiti, ci spostiamo da un luogo all’altro, abbiamo bisogno di usare le risorse naturali, la terra, l’aria, l’acqua, l’energia. Possiamo immaginare la nostra impronta ecologica, come il segno che un piede, più o meno grande, più o meno pesante, lascia sulla sabbia bagnata. L’impronta ecologica è un indicatore della sostenibilità, che può essere misurato prendendo in esame le scelte alimentari, i rifiuti prodotti, il suolo occupato, le abitudini della vita quotidiana. Il metodo per calcolare l’impronta ecologica è stabilito dal Global Footprint Network (www.footprintnetwork.org). Il suo valore può dirci di quante risorse naturali abbiamo bisogno e se stiamo consumando il giusto, cioè abbiamo un comportamento “sostenibile”, oppure consumiamo troppe risorse al confronto con la capacità della Terra di rigenerarle. Il nostro modo di vivere, che in gran parte dipende dalle nostre scelte quotidiane che possiamo anche cambiare, può essere in armonia con il Pianeta, oppure può consumare più risorse di quelle che si hanno a disposizione.
Si sente molto spesso parlare di sviluppo sostenibile. La prima definizione venne data nel 1987, nel Rapporto Bruntland “Our common future” dell’ONU, come “sviluppo che risponde alle necessità del presente, senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie necessità”. Nel 1991, in “Caring of the Earth: A Strategy for Sustainable Living”, lo sviluppo sostenibile fu definito come “soddisfacimento della qualità della vita, mantenendosi entro i limiti della capacità di carico degli ecosistemi che ci sostengono”. Questo approccio è stato criticato con la cosiddetta “metafora della bestia da soma”, dato che con la “capacità di carico” si stabiliscono dei limiti per l’inquinamento, lo sfruttamento del territorio, l’emissione di CO2, etc), come se l’ambiente venisse trattato come un asino, da caricare con un peso appena inferiore a quello che provocherebbe la morte. Con la Conferenza mondiale di Rio nel 1992, si prende consapevolezza che il problema ambientale del nostro Pianeta non può essere affrontato solo riparando i danni, ma deve essere modificato il modo di produrre e consumare. Dieci anni dopo, con la Conferenza di Johannesburg, il concetto di sviluppo sostenibile viene fondato su tre fattori interdipendenti tra loro in equilibrio dinamico: ambiente, economia e società.